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Presenza di acqua allo stato liquido sulla superficie. Orbita attorno a una stella non troppo grande, non troppo piccola, non troppo vicina, non troppo lontana. Presenza di un’atmosfera. Sono alcune tra le condizioni (necessarie, ma non sufficienti) che fanno sì che un pianeta sia un buon candidato a ospitare forme di vita. La nostra Terra le possiede tutte; e la comunità scientifica continua incessantemente a scrutare il cielo alla ricerca di corpi celesti potenzialmente abitabili. I papabili al momento sono parecchi: dal 1995, anno in cui Michel Mayor e Didier Queloz individuarono il primo esopianeta in orbita attorno a una stella simile al Sole – scoperta che gli sarebbe fruttata il Nobel per la Fisica ventiquattro anni più tardi –, gli astronomi ne hanno identificati oltre 4mila. E la Nasa in questi giorni ha deciso di dare ulteriore spinta alla ricerca di altre forme di vita nell’Universo finanziando un progetto volto a individuare le cosiddette “tecnofirme”, ossia segnali (attivi e non) di attività tecnologiche su pianeti lontani. Titolare del progetto è Adam Frank, docente di fisica e astronomia alla University of Rochester.
L’idea di Frank e colleghi nasce dalla necessità di fare un passo in avanti rispetto alla semplice (che semplice non lo è affatto) ricerca di pianeti adatti a ospitare la vita, andando a cercare nello specifico tracce di vita intelligente.